Abbandoni sportivi e mondi digitali,
si comunica senza un confronto
grazie a Fondazione Estense e al Resto del Carlino di Ferrara

Da presidenti e allenatori di varie società sportive è partito un appello per indagare un fenomeno che interessa varie discipline, soprattutto le categorie giovanili, vale a dire l’abbandono sportivo, o dropout sportivo. Una tendenza che si è maggiormente acuita nel periodo che potremmo definire “post-covid”, queste sono le parole condivise da quasi tutti gli addetti ai lavori. Fondazione Estense ha risposto alla richiesta, portando uno stimolo ulteriore, cercando cioè una correlazione tra questo fenomeno e il mondo digitale.
Alleanza Digitale, progetto sostenuto e finanziato dalla Fondazione Estense e dalla Associazione tra fondazioni di origine bancaria dell’Emilia Romagna, si è occupato in questi mesi di stimolare l’argomento attraverso una serie di laboratori che hanno coinvolto ragazzi e ragazze all’interno delle scuole, giocatori e giocatrici di varie discipline sportive, genitori e dirigenti interessati nella crescita socio-psico-sportiva dei/delle vari* figl* all’interno delle varie società sportive interessate.
Tra i professionisti calatisi nell’esperienza di Alleanza Digitale c’è Matteo Carletti, sociologo e consulente filosofico, che ha attinto dalla propria esperienza di giocatore prima e allenatore poi, per metterla al servizio del progetto nella conduzione di laboratori con ragazzi, giocatori, genitori e dirigenti.
Alla luce del lavoro svolto e delle tematiche emerse durante gli incontri, si può analizzare il fenomeno dell’abbandono sportivo come la punta di un iceberg che porta con sé una complessità di elementi, e che vede nella parte più profonda, l’ormai endemica difficoltà della nostra società di approcciarsi al desiderio.
E’ importante dirsi e sancire, che la nostra società oggi è fondata su una solitudine strutturale. Ci troviamo ad essere connessi e sovrastimolati, illudendoci così di non essere mai soli, ma la realtà è che comunichiamo con gli altri, ma non ci confrontiamo con gli altri. Questo modello evita di interessare qualcuno diverso da noi attraverso il linguaggio, porta tutti a esser sempre più solitari nell’elaborazione dei messaggi e delle informazioni a cui il digitale ci ha sovraesposto. Comunicare è importante, informarsi è altrettanto fondamentale, ma per crescere, indipendentemente dall’età, è necessario un confronto che aiuti a sviluppare un pensiero critico.
I ragazzi in primis, ma gli adulti non sono da meno, trovano modelli di confronto nelle foto postate, nei reel di Instagram, nei video di Tik Tok, tra gli short di YouTube. Ci sono dei modelli di vita standardizzati che vengono riproposti in tv, nei giornali e sui canali social.
È negativo tutto questo? No, se accanto hanno qualcuno con cui confrontarsi.
In un’epoca liquida, esposti all’incertezza, a rischi, guerre e cambiamenti repentini, lo sport acquisisce un grande valore nella narrazione della vita quotidiana. Fornisce punti fermi e capisaldi importanti, fornisce identità e valori condivisi, risulta oggi ancora più evidente il famoso detto che nella vita si cambiano coniugi, amanti e soprattutto partiti politici, ma difficilmente si cambierà mai la propria fede sportiva.
La grande macchina del consumo ha intuito ormai da tempo tutto questo e cerca di sfruttarlo a proprio vantaggio, non a caso oggi è cambiato il paradigma dello sportivo di successo, perché non è più colui o colei capace di grandi gesti sportivi fini a se stessi, ma gli sportivi divengono testimonial, si sperimentano ad essere cantanti, attori e attrici, stilisti con case di moda proprie, filantropi che aprono scuole sportive in tutto il mondo. Gli sportivi sono un investimento a tutto tondo, a cui il mondo si riferisce e si confronta, il digitale è il grande alleato di questo investimento. Nelle classi in cui ho svolto i laboratori, alcuni, in particolare ragazzi, mi hanno scritto di aspirare a essere un calciatore famoso, ma non con riferimento a particolari doti tecniche, ma per i soldi e il potere che questi possono avere. E’ qui che la punta dell’iceberg dell’abbandono sportivo fa capolino all’orizzonte.
Gli sportivi divengono attori di uno show business che deve produrre numeri, attirare follower, creare spettacolo e con esso evolvere un profitto, alla stregua di un’azienda con un’economia da rispettare. Un’economia che fa il proprio ingresso in borsa, come alcune società sportive hanno fatto, un’economia che corrisponde alle vittorie prodotte, oltre ai trofei che si ritirano. Entra in gioco allora il concetto di performance. L’azienda deve essere performante, lo sportivo deve essere performante, tutti bisogna dare il massimo sennò si rischia di finire nel dimenticatoio e nello scarto. “Bisogna essere tutti utili alla causa dello scudetto o della salvezza”. Quante volte l’abbiamo sentito dire? In questo clima si assiste al proliferare di sportivi che si affidano a professionisti che li aiutano a raggiungere certi obiettivi e mantenere certe performance. Noi stessi, sportivi amatoriali o semi-professionisti, emuliamo questo tipo di approccio appoggiandoci alla tecnologia, comprando dispositivi che ci misurano i battiti, App che testano la nostra prestazione, chiediamo all’AI di preparare degli allenamenti specifici. Anche noi, non vogliamo essere da meno a livello performativo.
Approcciando così lo sport, ma anche la vita in generale, non si lascia spazio al desiderio di attecchire, ma si esaltano maggiormente le voglie. Le voglie sono l’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri standardizzati e normalizzati.
Alla luce di quando detto, i ragazzi oggi si trovano a vivere una quotidianità che rimanda la possibilità di esser scartati se non raggiungono certe performance, restituisce il loro essere inutili se non aiutano a vincere, vivono grandi sportivi attraverso un racconto parziale dei mezzi di comunicazione che esaltano successo, soldi e fama; trovano riscontro nell’atteggiamento di noi adulti che ci comportiamo sposando un atteggiamento performativo e chiediamo loro impegno, di dare il massimo, di portare a casa i risultati.
Alcuni ragazzi nelle classi e nelle società sportive, hanno raccontato che la sera perdono la concezione del tempo dentro il cellulare perché li aiuta ad allentare i pensieri, allontanare le aspettative che i genitori o l’allenatore hanno su di loro. In pratica si anestetizzano. Il digitale non è solo comunicazione e racconto di vite vissute da altri, ma è anche un modo per esserci annullando uno spazio e un tempo che non posso controllare e mi schiaccia.
E’ negativo tutto questo? No, se accanto hanno qualcuno con cui confrontarsi.
In questo vortice, in cui il desiderio appare una chimera lontana, avvengono però dei corto circuiti importanti, che lo riavvicinano. Tutti gli sportivi sono come quelli raccontati? Lo sport è veramente alla mercé del profitto? Non sempre per fortuna. Mi sovvengono tanti esempi: Giannis Antetokounmpo, giocatore NBA, dopo esser uscito dai playoff lo scorso anno, a un giornalista che parlava di stagione fallimentare, in conferenza stampa risponde per le righe facendo una sorta di “elogio del fallimento”; le scorse olimpiadi la nuotatrice Benedetta Pilato si commuove di felicità di fronte al suo quarto piazzamento in finale, e pur di fronte all’incredulità dei giornalisti, spiega la commozione per aver superato infortuni e difficoltà; il Bologna che vince la Coppa Italia e Del Piero qualche anno fa che firmava il proprio contratto in bianco pur di continuare a giocare con la Juventus. Gli esempi sono tanti. Come si può capire per un ragazzino oggi la “panchina” può voler dire essere fallimento, essere inutile “alla causa” vittoria, può voler dire mi tolgo da una frustrazione e posso rimanere a casa perché tanto, anche se da solo, posso avere comunque una mia socialità attraverso il telefono, il computer o la consolle.
Per concludere quindi, penso che lo sport debba oggi riprendere ed esaltare quel suo grande valore di socialità. Per fare questo, ha bisogno del supporto da parte di adulti che siano coerenti, non tanto con l’idea di performance, quanto con quella di desiderio. Se tutti noi continuiamo a esprimere linguaggi che usano solo parole quali performance, utilità, dare il massimo e risultati, non apriremo mai a un approccio alla vita che sia carico di eros, inteso come amore e desiderio.
Abbiamo tutti bisogno di arricchire il nostro linguaggio di parole che ci aiutino anche ad abitare le nostre mancanze e le nostre difficoltà; ci aiutino a non sentirci difettosi e da buttare se non siamo al livello di quegli standard che il mondo circostante ci chiede; ci aiutino infine a confrontarci e aprirci con qualcuno che non veda le nostre insicurezze come difetto, ma che le riconosca come normale svolgere della vita.
Tutto quello che abbiamo intorno spinge ad un appiattimento del desiderio in voglie, e l’abbandono sportivo allora? Se si pensa che si possa lottare contro il digitale, riproponendo un linguaggio che i ragazzi sentono intorno a loro tutto il giorno, allora è una partita persa in partenza. Non importa intraprendere battaglie inutili contro strumenti e mezzi che oggi sono alla portata di tutti, diviene indispensabile non lasciarli in quella solitudine strutturale e porsi con loro su un piano diverso, parlando un linguaggio diverso.
Rivalutiamo la panchina, ascoltiamo la loro inutilità, aiutiamo loro a formare un’identità che possa essere sporcata di performance negative o immagini perdenti. Adottiamo un linguaggio in cui la differenza possa essere confrontata e rivista assieme a compagni di squadra, allenatori o genitori.
Insegniamo loro l’amore per lo sport, e per farlo, noi allenatori o genitori dovremmo aprirci per primi all’idea che l’amore per lo sport non è misurabile solamente da tutti quelli che giocano o diventano campioni, ma è misurabile anche da quelli che abitano quella distanza che intercorre tra il campo e la panchina, e che puntuali si presentano all’allenamento successivo. Dovremmo ricordare di tornare in panchina anche noi ogni tanto, perché la panchina non si subisce, ma è una condizione che fa parte della vita e aiuta a misurarci sul nostro desiderio.
Ricordiamocelo, si può essere “inutili” e amare lo sport, solo così parleremo ai ragazzi un linguaggio che li possa aprire alla vita e al desiderio, e li aiuti a riscoprire l’amore per lo sport che praticano al di là di frustrazioni e difficoltà.