Le difficili costruzioni identitarie

Osservazione Partecipante in comunità educativa per minori tra
diversità, culture, consumi e adolescenza

– Relazione risalente al 2013 anni in cui lavoravo all’interno della comunità in questione –
– Relazione redatta nell’ambito dello studio “Politiche del Benessere” –

Campagna di sensibilizzazione all’integrazione realizzata in collaborazione con Pubblicità Progresso – Fondazione per la comunicazione sociale, ACRA, Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo.

Introduzione

(salta l’introduzione)

L’organizzazione per cui lavoro (si ricorda che la relazione è stata scritta nel 2013) è l’Opera Don Calabria – Città del Ragazzo con sede a Ferrara, una comunità educativa residenziale di origine ecclesiastica, all’interno della quale troviamo minori di genere maschile in situazione di svantaggio. L’istituto trova le radici nella “Villa del seminario Diocesano” per merito del Mons. Ruggero Bovinelli che prese i contatti con Don Calabria, sacerdote veronese fondatore della Congregazione dei Poveri e Povere Serve della Divina Provvidenza, successivamente chiamata “Opera Don Calabria”. L’ Istituto oggi riunisce a se varie realtà che vanno a formare la famiglia calabriana presente su tutto il territorio nazionale: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Umbria, Calabria e Sicilia. Andando a scorrere tra la memoria storica della struttura si possono trovare fin dall’inizio caratteristiche quali: accoglienza, povertà e disagio. Sul sito della comunità si può infatti leggere la breve descrizione dei primi accolti nella struttura, ma soprattutto si può percepire la latente volontà alla capacitazione lavorativa come elemento portante per l’autonomia delle persone. Questa volontà latente è un elemento che i ragazzi hanno ben presente all’interno della struttura in cui vengono accolti, perché si sentono fin da subito inseriti in corsi professionali i cui sbocchi sono il mondo del lavoro. Oggi però si possono notare cambiamenti: sia per quanto riguarda gli ospiti della struttura, sempre più provenienti dall’esterno dei nostri confini nazionali e quindi diversi dai “primi 30 ragazzi, a piedi dalla stazione sotto il sole cocente, giunti da Ronca (Verona)”; sia per quanto riguarda la difficile condizione lavorativa in cui si trova oggi il nostro paese, inserito in una più allargata crisi internazionale. Nei 4 mesi di osservazione / lavoro i ragazzi ospiti sono stati in totale 12, si sono alternate 9 nazionalità: Senegal, India, Pakistan, Italia, Albania, Cameroon, Afghanistan, Colombia. Tra queste si sono contraddistinte 3 religioni: Islam, Induismo, Cristianesimo. L’utenza ha subito cambiamenti poco rilevanti, formando per quasi tutto il periodo un gruppo di 10 persone (tranne gli ultimi 10 giorni che sono stati in 9). Gli ospiti rientrano in un’età che vanno dai 12 ai 18 anni (1), compiuto il diciottesimo anno di età si accingono ad un percorso autonomo. Diventando maggiorenni legalmente la comunità non ha più responsabilità formali nei confronti del ragazzo, nella pratica però il gruppo educativo si impegna comunque a non abbandonarlo, a cercare preventivamente una rete di supporto, a introdurlo nel mondo del lavoro, riavvicinarlo a casa, ecc. ecc. a seconda degli obiettivi posti dai servizi che seguono il minore ed in base soprattutto all’orizzonte che si pone il ragazzo stesso. Nel 2010 a questo proposito è stato avviato un progetto ”Io lo so che non sono solo”, un’esperienza sperimentale di un gruppo appartamento ad alta autonomia per neomaggiorenni (oggi, anno 2021, momento in cui pubblico la relazione, potrebbero esser cambiate certe progettualità), parallelo alla comunità educativa per minori e facente parte sempre dello stesso Istituto Don Calabria – Città Del Ragazzo. Creata dall’esperienza di alcuni educatori, proprio per supportare, qualora fosse richiesto dal ragazzo stesso, il passaggio alla maggiore età, senza per questo essere abbandonati a se stessi. Precedentemente ho parlato di “osservazione / lavoro” e ho voluto sottotitolare la tesina con il termine “Osservazione Partecipante”, perché trovo il ruolo di educatore una posizione estremamente privilegiata per praticare un’osservazione con gli occhi non solo di chi deve educare, ma anche di chi osserva le situazioni dalla prospettiva dell’aspirante sociologo. La spinta alla descrizione della comunità per minori nasce dalla situazione identitaria caleidoscopica che personalmente ritengo molto interessante. Partendo dall’etimologia della parola comunità, dal latino communitàtem: più persone che vivono in comune, sotto certe leggi e per un fine determinato […]. Già l’applicazione della parola alla Città del Ragazzo, trova una convivenza di due aspetti che mettono l’accento sull’importanza del processo di riflessione che deve essere attuata all’interno di questo contesto, cioè una comunanza che deve far convivere una importante, al tempo stesso rispettata, differenziazione. La differenza emerge dall’eterogeneità delle storie personali, età, nazionalità, culture, religioni. La comunanza è data invece oltre che dal luogo e tempo, anche dalle spinte che in senso allargato provengono dalla società in cui questi ragazzi si trovano a vivere. Il mio intento è quello di integrare il lavoro di psicologi e assistenti sociali portati all’analisi dei singoli componenti della comunità, aggiungendo un’analisi del gruppo dei ragazzi, che oltre alle proprie difficoltà personali, si trovano a dover fronteggiare accadimenti quali globalizzazione, difficile accettazione della differenza, esaltazione delle libertà, consumi… il tutto con uno sguardo sempre alle proprie origini. Fragili personalità, a seguito anche della difficile età, si muovono all’interno di un panorama complesso, alla ricerca di segni di riconoscimento che li possa portare a capire sempre meglio chi sono, a dargli un senso di protezione ed accettazione. Questa mia breve osservazione non ha la presunzione di essere una osservazione con la “O” maiuscola, ma ha l’intento di essere una introduzione su alcuni temi che vedo estremamente importanti e su cui riflettere all’interno di una comunità con le caratteristiche della Città del Ragazzo.

  1. Il diciottenne in questione è unʼeccezione. Pur compiuto il diciottesimo anno di età rimane ancora allʼinterno della struttura per motivi legali, però in parallelo al periodo di osservazione svolto intraprende un percorso di riavvicinamento a casa


I. Cibo, memoria e identità

Alla luce delle storie personali, età e conseguenti difficoltà, ho scelto il cibo come primo tema della mia relazione perché trovo sia uno degli scogli più duri da affrontare per quanto riguarda i ragazzi ospiti. Quello che voglio analizzare in questa parte è il tentativo di avvicinamento da parte dell’organizzazione della struttura ad un tema particolarmente ostico, partendo dal valore simbolico che assume il cibo, per arrivare alle difficoltà annesse e ad un tentativo di approccio con quest’ultimo. Visto il tema complesso, procedo per gradi in modo da entrare ed analizzare al meglio la variabile cibo. Il primo passo, prima di soffermarsi alla descrizione del valore simbolico dell’alimentazione, è riprendere alcune caratteristiche dei ragazzi già riportate nell’introduzione. Ogni giorno si esprime un confronto con la differenza mediante il solo soffermarsi alla tavola della comunità. In quel momento troviamo nove nazioni diverse che attraverso il cibo esprimono nove mondi, culture, valori… ognuno a stretto contatto con la diversità e con un Mondo Altro. Questi nove apparenti divari, riscoprono un linguaggio comune grazie alla religione. In comunità infatti si ritrovano tre culti diversi, questi ultimi aiutano a tradurre e semplificare la pratica del mangiare. Partendo da queste constatazioni ci sarebbe da approfondire ulteriormente il tema religioso, ma in queste occasione mi limiterò a far emergere la parte adattiva che i ragazzi mettono in gioco nella quotidianità. Nella costruzione delle tre categorie di pratiche religiose, vengono omesse le varie sfaccettature che sottostanno ad ognuna di esse. Nella condivisione con altri commensali di un pranzo preparato nel rispetto della religione, troviamo in maniera latente già un adattamento da parte del ragazzo, perché molto spesso il rispetto del culto in ognuno dei paesi sopra descritti viene fatto in una maniera completamente diversa. Prima ancora della dinamica educativa, trovo che questo sforzo vada riconosciuto da parte dell’equipe, perché sarà attraverso il riconoscimento dell’adattamento che il ragazzo si sentirà rispettato e potrà sviluppare ulteriormente questa parte senza sentirsi deprivato della sua origine valoriale, culturale e religiosa. Il tema dell’adattamento è un aspetto che spesso passa in secondo piano nella quotidianità, ma che rappresenta uno dei fulcri principali a cui ruota attorno il dibattito europeo sull’integrazione. In questa relazione, non si vuole scomodare il parlamento europeo, ne tantomeno attingere alla carte dei diritti fondamentali, ma si vuole sottolineare l’importanza del tema adattamento (tanto da essere al centro dei dibattiti politici), per poi riprenderlo e portarlo in chiave dialogica. Come espresso in precedenza il rispetto dell’adattamento, non è compassionare e portare il ragazzo a chiudersi dentro i confini del comportamento ottimale per se stesso e per la propria religione, ma è il riconoscimento dello sforzo che esso sta facendo per adattarsi. Questo processo lo trovo importante per provare ad evolvere la situazione dei nostri ospiti da puro riconoscimento ad accettazione. Come detto in precedenza trovo importante portare alla luce questo tema perché analizzando il valore simbolico del cibo, si va a toccare un aspetto molto difficile per i ragazzi e quindi diventa fondamentale un approccio basato sull’apertura. Bergamaschi e Musarò scrivono:

[...] il cibo è memoria che avvicina il passato e allontana dal presente, evoca e in qualche modo presentifica un luogo antropologico, fatto di parole, memorie, ricordi, storie, persone, relazioni [...]
“Spazi di negoziazione ” di Bergamaschi e Musarò - 2011 - Ed. Franco Angeli - p. 12

Nella nostra comunità abbiamo a che fare con ragazzi che hanno alle spalle storie molto pesanti, alle volte anche troppo grandi per la loro età. Partendo da queste considerazioni, trovo il momento del pasto, un frangente della giornata a cui va prestata particolarmente attenzione. Secondo me andrebbe approfondito ulteriormente il valore simbolico del cibo, riconoscendolo come linguaggio, apprezzandolo come elemento identitario e socializzante. I ragazzi portano con se fratture veramente forti, ogni volta che si approcciano al momento del pasto per loro è come ancorarsi al passato, consumando in un presente molto stretto. Nella nostra comunità trovo indispensabile ripensare al valore del cibo, per aiutare indirettamente ad alleviare lo “shock culturale” a cui i ragazzi sono sottoposti. Attraverso il confronto, si deve rinforzare e maturare il loro spirito adattivo qualunque esso sia(2), cercando di sublimare il loro senso di ingiustizia, nel mantenimento della propria identità attraverso spazi, tempi e modalità che ritrovano in una terra per loro straniera. Per questo si potrebbe insieme a loro scoprire ed approfondire le pietanze presenti nella loro dieta quotidiana, cercando di capire quale valore hanno. Creare insieme un menù settimana dopo settimana dove si preparerebbero alcuni piatti tipici. La pianificazione settimanale darebbe così la possibilità di organizzarsi insieme a loro per predisporre i cibi di cui non si conosce la preparazione, al tempo stesso organizzarsi per il reperimento del materiale, aggiungendo a tutto questo un’ottica di diminuzione degli sprechi che darebbe vantaggi educativi ed anche economici. Vista la tripartizione principale delle religioni, basterebbe arrivare alla preparazione di un piatto ad ogni pasto seguendo la religione di riferimento e le indicazioni del ragazzo. Così facendo si supererebbe un’altra grossa difficoltà accusata dagli ospiti: la limitata possibilità di scelta. A questa affermazione c’è da aggiungere anche le indecisioni messe in campo dagli adolescenti stessi, repentini nel cambio di gusti e voglie. Trovo però che l’approfondimento di questi aspetti portandoli sul piano del confronto, cambierebbe anche la frequenza dei dietrofront nella scelta di cosa mangiare. La perseveranza in questa direzione cambierebbe l’approccio dei ragazzi nei confronti del cibo, della condivisione dello stesso e contemporaneamente avvicinerebbe la responsabilità degli ospiti alla loro scelta di cosa mangiare.
Per concludere questa parte riporto la descrizione di due feste di compleanno e una di fine percorso, vissute all’interno della comunità. I festeggiati in tutti e tre i casi sono stati supportati nell’organizzazione delle feste ed è stata data libertà sulla modalità dei festeggiamenti (sempre nei limiti educativi e civili ovviamente). In tutte le occasioni è stato scelto dai ragazzi di invitare persone anche esterne alla comunità, ma conosciute dall’equipe, che fossero in grado di cucinare pietanze tipiche del paese di origine del festeggiato e che aiutassero quest’ultimo a far conoscere agli altri commensali i loro piatti. Al di là del mio giudizio personale, per il quale ho ritenuto quei momenti carichi di emotività, comunicazione, curiosità, scoperta, condivisione, divertimento… e cibi buonissimi… quelle situazioni hanno messo in evidenza l’importanza che il cibo riveste nelle vite di questi ragazzi. Corollario di una festa, ma emotivamente centrale nei festeggiati, anche se per una mezza giornata sono tornati al passato, hanno assaporato gli odori di casa e toccato con mano una appartenenza. Come scrivono Musarò e Paltrinieri:

 “[…]Gli emigranti tendono a riprodurre del proprio mondo non solo la cucina, ma anche le atmosfere, i rituali, le gestualità, gli spazi e i tempi alimentari del mondo di origine […]”.
 “Spazi di negoziazione ” di Bergamaschi e Musarò - 2011 - Ed. Franco Angeli - p. 49

Queste ultime descrizioni secondo me esaltano ancora di più l’importanza di alcuni elementi su cui dovremmo riflettere: le scelte che hanno potuto compiere; le modalità dei festeggiamenti; il valore simbolico, sociale, identitario che il cibo ha espresso all’interno delle loro scelte.

  1. Nella letteratura riguardante le dinamiche migratorie, si incontrano molteplici sfaccettature riguardanti le definizioni sulle modalità di adattamento degli immigrati. In questa sede semplificherò molto, riportando i due estremi di un continuum al cui interno si trovano diversi elementi utili per descrivere ogni situazione, senza cadere in stereotipi o stigmatizzazioni: il primo, chi rifiuta completamente gli stili di vita, modalità e tempi del paese ospitante, quindi vive il luogo dove si trova come transitorio; oppure chi sposa il modello del paese ospitante, rifiutando il modello e la cultura del paese dʼorigine


II. Spazi vitali, virtuali e identità

Ogni volta che penso agli spazi virtuali all’interno della comunità, la mia riflessione spazia attorno alle immense possibilità che le nuove tecnologie possono dare. Al tempo stesso però viene da soffermarmi anche sul tramutarsi di queste possibilità in ulteriori ambiti nei quali bisogna comunque lavorare per approfondire certi aspetti con i ragazzi ospiti. Se si osserva l’utilizzo dei cellulari, tablet o computer, questi ultimi rappresentano un continuo rimando interiore: il passato, l’origine, da dove vengo; con il presente, nuove amicizie, contatti quotidiani con i coetanei compagni di scuola o di giochi. Una frizione costante che riporta ad una ferita interiore difficile da risanare, ma soprattutto che si riversa in un’età difficile anche da capire e quindi interiorizzare.
Nella parole di Bauman che riporterò in seguito a mio avviso troviamo una descrizione più che esauriente della condizione attuale dei ragazzi ospiti:

[...]Stiamo vivendo in quello che chiamo periodo dell’”interregno”, ed è forse questa la chiave per capire il mistero della nostra condizione attuale.[…] Interregno significa che le vecchie situazioni non funzionano più, non valgono più, ma quelle nuove non sono ancora state inventate. Dunque ci troviamo tra due fuochi, per così dire, in un processo di cambiamento: non sappiamo più dove siamo e non sappiamo nemmeno dove stiamo andando.[...]
“Lo spirito e il clic” di Z. Bauman - Ed. San Paolo s.r.l. 2013 - p. 25 

La descrizione di Bauman è basata sugli accadimenti sociali generali, una critica agli elementi sovrastrutturali e istituzionali incapaci oggi di tramandare valori. Il discorso però può essere benissimo trasportato nei confronti di un ragazzo che attraversa 5 nazioni in tre mesi (per fare un esempio concreto di un ragazzo) e si sedimenta nella nostra comunità oggi. Trovo quindi i ragazzi ospiti di fronte a una duplice difficoltà: l’ingresso in un interregno con difficili dinamiche di trasmissione dei valori; a cui si aggiunge una difficile coniugazioni di due realtà (la nostra e quella di origine) che hanno valori, culture, riti molto diversi. Ridefinendo il termine di Bauman, mi viene da parlare quindi di un interregno in senso allargato. A questo punto il network viene in soccorso come elemento di unione di questa realtà frastagliata, ed è per questo che se approfondito e curato, può divenire un fattore sintropico piuttosto che un ulteriore rafforzativo della scissione interiore. Se si pensa a Skype e Facebook, troviamo in questi due programmi le icone dell’annullamento degli spazi, piattaforme che possono riposizionarci mentalmente alle nostre origini alla velocità di un click. Questi programmi possono divenire utili per far sentire il ragazzo fedele ad una appartenenza, tenere i contatti con i propri familiari, oppure aggiungere all’appartenenza anche la progettazione, riuscendo a coinvolgere i propri cari in progetti di riunificazione (come a volte ci capita di imbattersi tra i discorsi degli ospiti). Per questa ragione trovo utile all’interno della comunità uno spazio simile agli internet cafè, in modo da dare la possibilità a chi non è in possesso di certi strumenti di poter accedere al proprio account e comunicare, nel rispetto di orari e con l’eventuale aiuto degli educatori in turno. L’aiuto a cui mi riferisco non è solamente di procedure da attuare per accedere ed usare i programmi, ma anche magari il supporto o la condivisione che può richiedere il ragazzo una volta collegato con un Presente altro. Al di là del virtuale però si presenta sempre la forma materiale, imprescindibile elemento fisico con cui i ragazzi si trovano a vivere oggi. Ecco quindi che emerge: “L’unica parte della struttura che è veramente nostra”, come viene descritta da alcuni ragazzi abitanti la comunità, cioè la camera. Se si entra in questo micro-mondo si scorgono elementi importanti che segnano le identità di chi vive al proprio interno. Tra la confusione delle camere, possiamo cogliere la consueta presenza di oggetti che riportano in un modo o nell’altro al
proprio paese d’origine. Come una metafora del proprio essere, tra la confusione dei vestiti, oggetti, il disordine tipico adolescenziale, si trova sempre un oggetto che esce da questa logica e contrasta con il caos, si rinviene l’accudimento attorno a questo elemento importante. Secondo il mio parere è attorno a quell’elemento emergente, che andrebbe riordinata (in tutti i sensi) il luogo dove concettualmente iniziano a progettare la posa della propria mente locale(3). La camera è un fondamentale aspetto nella costruzione della propria identità. Nella struttura si consegnano camere tutte uguali, seguendo il principio dell’uguaglianza di spazi e trattamenti. Secondo il mio punto di vista questo modo di procedere rimanda una concezione di prestito e non di investimento. Quello che andrei a rivedere è l’approccio, portandolo verso una metodologia ispirata al concetto di differenziazione comunicativa(4). Questo approccio avvicinerebbe il ruolo dell’educatore a quello del costruttore di dialoghi, basando sull’ascolto e la scoperta dell’Altro il rapporto con i ragazzi. Proprio da qui si potrebbe intraprendere una rivisitazione delle camere, aiutando i loro ospiti nella personalizzazione delle stesse. Lo sviluppo non sarebbe appoggiato sul concetto di fare quello che si vuole all’interno delle proprie camere, ma sul più complesso lavoro di relazione che si dovrebbe instaurare tra educatore e ragazzo. L’incontro tra soggettività coscienti della loro diversità, come scrive Scidà(5), in questo caso si baserebbe su una sana relazione asimmetrica tra chi è in fase di costruzione della propria identità, il ragazzo ospite, e tra chi parte dalla propria consapevolezza identitaria per aiutare e supportare la costruzione dell’identità del ragazzo, cioè l’educatore.

  1. “Mente Locale. Per unʼantropologia dellʼabitare” di La Cecla Franco – 1995 – Ed. Elèuthera
  2. “Processo di integrazione costruito sul dialogo, il paragone ed, eventualmente sullo scambio tra gruppi etnici. Questo tuttavia presuppone un incontro tra soggettività coscienti della loro diversa identità ed anche della reciproca distanza culturale, ma proprio per questo tese ad una mutua conoscenza e ad un paragone tra identità. Il dialogo e la possibilità di una comprensione reciproca, in altri termini, devono, per avere un senso, essere preceduti nei singoli e nei gruppi da un esperito e sedimentato lavoro di costruzione della loro specifica identità[…]”
    “Sociologia delle migrazioni e della società multietnica” di Pollini, Scidà – 2002 – Ed. Franco Angeli – p. 169
  3. Per Scidà: “la differenziazione comunicativa fa perno su una rete di legami di mutua interdipendenza, anche se non necessariamente simmetrici, tra soggetti che mantengono lʼidentità culturale di partenza. Questa interdipendenza è resa feconda dai processi di scambio culturale e dal meticciato. Lʼipotesi della differenziazione culturale, in altre parole, presume intrinsicamente il valore positivo e socializzante della contaminazione culturale. Lʼapproccio della differenziazione comunicativa presuppone lʼadozione di una prospettiva negoziale di sviluppo sociale. […]”
    “Il linguaggio della società ” di P. Malizia – 2004 – Ed. Franco Angeli – p.133


III. Stili di vita consumistici – Conclusioni

Ho deciso di mettere tra le conclusioni l’influenza che lo stile di vita consumistico ha sull’Istituto e i ragazzi, perché trovo sia un tema che meriti non solamente un approfondimento, ma uno spunto di riflessione educativo di equipe. Consumi e società sono un binomio di studio fecondo, che andrebbe sviluppato insieme ai ragazzi per lavorare sulle influenze dello stile consumistico sulle dinamiche relazionali, lavorative, ecc. inserendo così gli ospiti nel contesto societario più allargato. Mi preme chiarire che la mia volontà non è quella di proporre un “j’accuse” allo stile di vita consumistico della società odierna, ma portare alla riflessione certe tematiche cui l’equipe educativa potrebbe leggere ed approfondire. Partendo dalla filosofia del complesso Opera Don Calabria, come già accennato nell’introduzione, si trova l’impronta ergoterapeutica che viene consegnata all’ingresso del minore in struttura. I ragazzi ospiti, anche poco dopo il loro ingresso, sembrano afferrare il concetto con rapidità, probabilmente perché riveste un’esigenza di cui loro stessi sono alla ricerca. Per queste ragioni secondo me non si può prescindere dalle logiche del mercato del lavoro odierno. Leggendo la letteratura che ha come tematica il lavoro, si possono trovare termini quali flessibilità, performance, utilità, compenso, precarietà ecc. Pur essendo neofiti di questo mondo, i ragazzi si trovano schiacciati dalla pressione delle dinamiche lavorative come le persone più adulte, e come queste ultime faticano a gestirle. Per alleviarne il peso, trovo indispensabile creare un network in cui inserire i ragazzi alle prime armi. Gli ospiti spesso si trovano a doversi appoggiare agli stage proposti dalle scuole professionali che frequentano. Queste esperienze però si trovano ad essere occasioni create volte per volta dalla nostra comunità. Ciò di cui si necessita, a mio avviso, è una rete formale, riconosciuta ed accogliente, di soggetti che allontanano il ragazzo dall’ottica performante di attività/lavoro per dargli la possibilità di sperimentare le proprie capacità. Gli stagisti/borsisti avrebbero un ventaglio di opportunità più vasto e non creato sull’immediatezza della disponibilità dell’azienda ospitante. In una età come quella 11 – 18 si asseconderebbe una dinamica importante, perché partirebbero dal presupposto di sentirsi alleggeriti dal peso del dover essere a tutti i costi spendibili sul mondo del lavoro, per ritrovare la possibilità di scegliere: scegliere attività che si confanno di più alle loro attitudini; scegliere di attivarsi e prendere le prime, se pur minime, responsabilità; scegliere di impegnarsi; scegliere di riavvicinarsi al riconoscimento delle proprie risorse e dei propri limiti; scegliere di sperimentarsi. Scelte che avverrebbero lontane dalla pericolosa coniugazione sottostante la logica del consumatore scelta-libertà(6), ma declinate in un’ottica di responsabilità e di impegno coadiuvate dall’equipe. Se il network di aziende fosse riconosciuto e formalizzato si potrebbero introdurre due caratteristiche importanti: forme di sana valutazione(7) dei ragazzi, che si andrebbero ad aggiungere all’intervento educativo; forme di ricompensa standardizzata (se pur minime), in questo modo eliminando atteggiamenti di alcuni tutor aziendali che permettendo elasticità su orari e modalità di svolgimento dello stage, assecondano involontariamente forme di deresponsabilizzazione dello stagista/borsista. La personale volontà di aprire una parentesi dedicata alla società dei consumi, viene dal senso di responsabilità che mi lega a questi ragazzi. Fragili sia per l’età, sia per le dinamiche che sono costretti ad affrontare. In una fotografia sociale in cui l’adolescenza è sinonimo di un allungamento dell’età in cui potersi considerare come tale, ai minori della Città del Ragazzo viene chiesto con molta velocità di diventare adulti. Questo processo di crescita purtroppo nel nostro caso viaggia troppo in sincrono con la formalizzazione anagrafica della maturità, ma è lontano dalla formazione identitaria dell’adulto. Questi ragazzi viaggiano su equilibri precari e certamente l’età non li aiuta, le loro problematiche relazionali-interpersonali nemmeno. Come educatore trovo che saper leggere queste dinamiche consumistiche che involontariamente sono entrate a far parte della nostra sintassi societaria, sia fondamentale per fornire quel senso di protezione di cui i minori necessitano. I nostri ospiti sono quella fascia di individui dichiarati svantaggiati e all’interno della nostra società ormai sono descritti (o saranno descritti) da un’etichetta a cui oggigiorno è difficile sottrarsi. La comunità trovo abbia il dovere di portarli verso l’uscita da questa emarginazione ed intervenire prima che diventi auto-emarginazione. Bauman asserisce:

[…] Le sofferenze dei poveri contemporanei, i poveri della società dei consumi non si lasciano ricondurre ad una causa unica. Ogni consumatore difettoso si lecca le ferite in solitudine, nel migliore dei casi con la sua famiglia, se questa non è stata ancora distrutta. I consumatori difettosi sono soli, e quando vengono lasciati per molto tempo tendono a diventare dei solitari; non vedono come la società o qualsiasi gruppo sociale (a parte una banda di criminali), possono essere loro d’aiuto, non sperano di essere aiutati, non credono che la loro sorte possa essere cambiata da mezzi legali, se non da una vincita alla lotteria. Inutili, indesiderati, abbandonati: qual’è il loro posto? La più immediata delle risposte è: devono scomparire.[…]
“Consumo, dunque sono” - Z. Bauman - 2007 - Ed. Laterza - p. 158


Riconosco difficile il compito di lavorare entrando in quel vuoto, toccando quotidianamente con mano quella solitudine, ma penso al tempo stesso sia indispensabile. I ragazzi attraverso le nostre figure devono percepire punti di riferimento che li sappiano guidare ed istruire, che li aiutino a leggere quei meccanismi per aiutarli a percepirsi sempre meno consumatori difettosi. Mi piace però concludere questa relazione con una visione diversa da quella pessimistica. E’ mia intenzione mettere in evidenza come gli ospiti all’interno della comunità sono sempre stati definiti da tutti, come svantaggiati. Nella loro condizione certo non si può affermare e illudere del contrario, ma sono convinto che la comunità nel suo piccolo riprenda un microcosmo esportabile all’esterno dello stesso. Quello che vorrei asserire è che nel rispetto della sofferenza e dello svantaggio di questi ragazzi, non mi va di soffermarmi su questo, ma proporre in loro un processo di crescita che li vede paradossalmente in una delle posizioni più “aggiornate” per formarsi ed entrare in questa quotidianità complessa. All’interno della comunità ci si trova a confrontarsi forzatamente con la diversità, accettazione, sofferenza, disagio, aspetti che se ci soffermassimo ad una riflessione personale, ritroveremmo quotidianamente all’interno della nostra vita anche se a condizioni ed intensità magari diverse. Oltre alla innegabile mancanza di quegli affetti primari indispensabili, la loro possibilità di ritiro e del sentirsi al sicuro è la comunità. Analizzando l’dea della casa nella società attuale, oltre ad una connotazione di accoglienza e serenità, ai giorni nostri è diventata sempre più un rifugio dalle difficoltà. Questo rifugio può essere vissuto come palliativo della difficoltà, o come vero e proprio rimedio. Il ritiro lo trovo un elemento fondamentale, non vorrei trasparisse il contrario da queste mie parole, ma dalle varie letture si constata che la casa è divenuta sinonimo di rifugio dalla paura dell’Altro generalizzato. In questo trovo i ragazzi della comunità come impossibilitati a “sfruttare” entrambe le versioni del ritiro/rifugio. Loro sono impossibilitati a vedere il rifugio come palliativo. Nella sfortuna di non avere un posto a tutti gli effetti loro (e questo comporta altri tipi di problematiche), il ritiro, se supportato dal lavoro degli educatori, diventa sollievo. Un ritiro sano, da adolescente che vuole isolarsi per un breve periodo di tempo dal mondo in generale, ma non dalla paura dell’Altro. Per questo motivo ho sottolineato nei paragrafi precedenti una serie di concetti: di dare un senso di protezione; adottare modalità per portare gli ospiti a sentire le stanze come luoghi propri; aggiungere un pizzico di appartenenza dando la possibilità della scelta e della valorizzazione della componente simbolica del cibo. Il nostro istituto penso abbia enormi potenzialità educative, che una volta espresse, possono aiutare a cambiare la prospettiva di questi ragazzi. La comunità può aiutarli ad uscire dalla sola connotazione negativa, per portarli verso una ricostruzione della propria situazione superando le sabbie mobili dello svantaggio per entrare nel riconoscimento e superamento del proprio passato, dei propri limiti e punti di forza, riuscendo così a dare una forma alla propria identità. Sono convinto che questo tipo di lavoro relazionale comporti un grosso sforzo, ma vada incontro all’esigenza e alla necessità dei minori di sentirsi protetti, guidati, ma soprattutto ascoltati e riconosciuti.

“Le difficili costruzioni di identità” – Politiche del Benessere – Dott. Matteo Carletti

  1. “[…] Lʼavvento della libertà, camuffato da scelta del consumatore, tenderà a essere visto come entusiasmante atto di emancipazione da obblighi penosi e fastidiosi divieti, o da routine instupidenti e monotone. La libertà, quando si sarà affermata e trasformata in unʼaltra routine quotidiana, in un tipo di orrore nuovo ma non meno spaventoso di quelli che doveva disperdere – lʼorrore della responsabilità – farà bene presto impallidire il ricordo delle sofferenze e dei rancori passati. Le notti che seguono a giornate di scelte obbligate sono pieni di sogni di libertà dai vincoli. […]”
    “Consumo, dunque sono” – Z. Bauman – 2007 – Ed. Laterza – p. 110
  2. Per sana valutazione intendo forme lontane dalle logiche performative. Sono valutazioni costruite assieme al ragazzo che lo aiutano a riconoscere le sue difficoltà o capacità, senza per questo dover utilizzare votazioni che rimandano a concezioni di promozione / bocciatura

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